REFLECTIONS

In periodo pre-pandemico, fortunatamente, la mia attività musicale è stata molto attiva, portandomi a suonare in molte situazioni diverse, sui palchi più differenti, con materiale disparato, ma sopratutto con persone molto variegate tra loro. Insomma: il descrivere quale potrebbe essere la volta in cui mi sono trovato più o meno a mio agio a suonare potrebbe diventare un’indigesta e difficoltosa reminiscenza delle mie esperienze passate, sicuramente incompleta. Quello che mi sono trovato a pensare è che ci sono dei fattori comuni a molte esperienze, sia positive che negative, che posso provare a descrivere, trovando una specie di formula alchemica tra l’agio e il disagio, diviso per grandi famiglie.
Il contesto è la cornice all’interno della quale l’atto performativo è valutato non tanto al momento del suo compiersi, tanto dall’aderenza dello spettacolo effettivo all’aspettativa che si ha di esso. Mi spiego. Ci sono contesti in cui è previsto (e a cui è socialmente riconosciuto) un ascolto attento, un riconoscimento del materiale che andiamo ad ascoltare come valido e pre-selezionato da orecchie colte (ci affidiamo spesso alla proposta) e altri a cui è convenzionalmente riconosciuto un livello ludico del fattore sonoro, nei quali una maggiore attenzione all’aspetto artistico sarebbe giudicata quasi fuori luogo. Quindi il contesto si compone di aspettative e convenzioni da parte dell’artista e dell’auditorio, di una (s)gradevole fiducia condivisa di ripetizione di canoni e cliché. Ovviamente questa fiducia è gradita da parte dell’artista quando sente che l’ambiente (inteso come contesto) dove si sta esibendo lo aiuta a sentirsi gratificato (ma ci torneremo dopo) nella sua professionalità, nella sua espressività e originalità, innescando una serie di rapporti virtuosi tra musicisti e ascoltatori; lo è meno quando il performer si trova a fare i conti nel suo mestiere con ambienti avversi (che, intendiamoci, conosce e frequenta per le ragioni più diverse), in cui l’auditorio – e spesso anche chi suona – svilisce l’atto sonoro al semplice intrattenimento o anche a una scusa per la scarsa qualità dell’esecuzione. Quindi, tornando a noi, per me un ottimo rapporto con il contesto è quando esso sparisce, lasciando un lucido e chiaro rapporto tra le parti in causa (pubblico e artisti): sia in ambienti ad hoc, sia in ambienti difficili, si smette di pensare alle coordinate spazio-temporali, al contesto sociale e ai ruoli, per affidarsi totalmente al fenomeno acustico. Una specie di decisione condivisa, ma presa da nessuno, una cosa che accade – come il movimento dell’aria che fa vibrare i timpani – innescata da una miscela di stupore, comunicazione emotiva ed una lunga serie di altri elementi intangibili. Ugualmente l’assenza di questa vibrazione provoca disagio, la sensazione di essere stati da qualche parte, ma di cui ci ricordiamo poco, un luogo qualsiasi non degno: quasi il nostro tempo fosse stato sprecato, come quando ci alziamo dal divano dopo aver dedicato troppa attenzione ad un prodotto televisivo scadente. Qualcosa di simile al senso di colpa.
L’atto performativo nella sua interezza si compone di connessioni complesse, incroci, scambi di energie creative, psichiche ed emotive. Gli scambi principali in questo senso sono quelli tra il singolo musicista con il resto dell’ensemble, quello dell’intera formazione con il pubblico, quello del pubblico con il singolo e quello del singolo con il pubblico (in ogni caso il rapporto è reciproco). Ognuna di queste casistiche meriterebbe una riflessione a parte all’interno della comprensione di cosa ci fa trovare a nostro agio o no alla fine di un concerto. Ad esempio, il fatto di rapportarsi con altre fonti sonore non è un puro fatto fisico ed acustico, come sappiamo, ma entrano in gioco ben altri fattori: empatia, gioco, senso di comunità e, perché no, ricerca di consenso. Quindi mentre suoniamo siamo in qualche modo concentrati e scissi sull’avvenimento, proprio perché in effetti stanno avvenendo più cose su più piani. Parliamo del materiale esecutivo e la sua condivisione ad esempio: se si fa riferimento ad un linguaggio specifico la nostra capacità espressiva all’interno di quel linguaggio ci farà guadagnare di credibilità e rispetto da parte dei colleghi e dal pubblico (che si aspettano quell’idioma), proprio per la padronanza che abbiamo delle prassi esecutive interne a quel sistema; ma se invece il contesto è prettamente concentrato sulla ricerca di materiale a-idiomatico il mostrarsi virtuosi all’interno di uno stile è del tutto fuori luogo, fino a risultare imbarazzante, con un progressivo prendere le distanze dal pubblico e dal resto del gruppo per gli stessi motivi che prima lo avvicinavano. Per questo l’agio con il proprio ensemble può derivare tanto dalla condivisione di un passato pregresso condiviso (che consta di esperienze, collaborazioni, ascolti), che predispone una rete di protezione qualunque sia la situazione, con un sistema di auto-supporto e conseguente sicurezza che poi trasmetteremo anche al pubblico, tanto da impreviste ed entusiasmanti affinità elettive nel collaborare con un artista che conosciamo appena, in cui ci riconosciamo, che sentiamo perfettamente in linea sia con quello che facciamo, sia sul modo di porsi, attivando tutti quei meccanismi di riconoscimento e apprezzamento che scattano conoscendo un estraneo. La scoperta e lo stupore, come un innamoramento, fanno parte di un processo che rende l’esperienza (sonora) densa di avvenimenti, con forti emozioni e attimi di connessione straordinaria tra i partecipanti al concerto, se pur in modo completamente diverso, ma tanto appagante quanto la fiducia completa e assoluta che si ha in artisti che conosciamo come le nostre tasche. Quindi in sintesi: il sentirsi parte di un gruppo affiatato o lo scoprire che ci sono connessioni inaspettate crea divertimento, facilità di espressione, facilità nella ricerca. A contrario ovviamente ci possono essere stanchezza e ripetizione con vecchi compagni e incompatibilità completa con certi artisti, non tanto dovuta al materiale che suoniamo, nè alla volontà di entrambi di lavorare assieme: mi è capitato di dover rinunciare a collaborazioni con musicisti molto bravi proprio per questa apparentemente incomprensibile incongruenza, talvolta anche umana, ma più spesso sonora, come se i suoni dei nostri strumenti non volessero collaborare. Questo è molto fastidioso.
Una cosa simile succede anche nello scambio di energia ed informazioni con il pubblico, che ovviamente subisce tanto quanto noi il rapporto tra i musicisti ed il contesto. In questo caso un’eccessiva convinzione sui rapporti saldati all’interno del gruppo, se pur positiva, può creare un sottile muro di incomprensione tra l’ensemble e l’auditorio. Più in generale diciamo che il circolo virtuoso che ci porta a valutare una serata come gradevole è lo scambio di energie extramusicali che sono presenti sia sopra che sotto il palco: fattori come l’attenzione, la noia, la comprensione, la derisione, passano oltre la comunicazione verbale, rendendo la volontà di comunicazione una delle parti più importanti e difficili nella realizzazione di una performance. Da musicista posso tranquillamente confessare che la maggior parte degli sforzi per un gruppo, durante le prove e durante la preparazione del materiale, sono incentrati sul significante della comunicazione: le note giuste, l’eliminazione dell’errore. Ma anche un’astrazione eccessiva, la traduzione di un concetto, se pur parti fondanti dell’atto compositivo/esecutivo/improvvisativo, se non adoprate con volontà di comunicazione possono divenire armi a doppio taglio che spaccano -a seconda degli equilibri- la performance in due: la lama del rasoio sulla quale dobbiamo danzare è sempre un bilanciamento millimetrico tra comprensione razionale ed emotiva da parte di strumentisti ed ascoltatori, volontà di potersi rappresentare e raccontare in ogni ruolo, espressività ed empatia, percezione di fiducia da parte del pubblico agli strumentisti, percezione di una porta di accesso a un gioco selettivo al quale siamo invitati come ascoltatori. Grazie alla reazione chimica perfetta di tutti gli ingredienti che alterano il nostro stato di coscienza e di percezione del reale – in quel momento – si attiva uno scambio totale, percettibile in modo quasi sensoriale. Riassumendo: la percezione di uno stato di grazia si ha quandouna situazione particolare, per motivi coscienti o no, si concretizza, quando una serie di fortunate convergenze si incontrano nella realizzazione di un grande rito sociale, che è la produzione, l’assorbimento, l’assimilazione e la digestione del suono.
Ora. È facile dire che quando tutti i possibili rapporti di intercomunicazione di cui sopra prendono fuoco in sala si respira un atmosfera speciale. E il musicista, che suona per sé stesso? Parte della motivazione che ci spinge a continuare a fare musica rientra in un meccanismo alimentato sia dall’interno che dall’esterno che, per quanto negato dai più, esiste ed è – sempre secondo il mio modesto parere – il motore di molta musica, non tanto nel suo lato negativo di rivelazione di verità acquisite, quanto in quello positivo di esorcismo della propria immagine: l’autocompiacimento, una (sana o insana, ma indubbia) gratificazione dell’ego. Il musicista che non coltiva dentro di sé una consapevole agiatezza nella tensione tra l’insicurezza personale e l’estrema fiducia nel suo prodotto artistico probabilmente non percepisce quella cinetica nevrosi che porta a rinnovarsi continuamente, cercando di esporre a se stessi il lato più interessante e meno conosciuto, più critico e severo, mentre si espone al pubblico quello che ha appena appena lasciato andare, l’idea ripulita dalle scorie selvatiche della ricerca, inflessibile sulla sua qualità espressiva e sulla sua comprensibilità.
Questo per dire che quando si suona si crea, si proietta qualcosa nel mondo, che sia un debole riflesso o una luce abbagliante, ma ci facciamo comunque filtri di un fenomeno acustico che da solo non potrebbe esistere. Lo ha scritto Kandinskij: ogni artista, in quanto creatore, deve esprimere se stesso. Questa è, vuoi o non vuoi, comunicazione. Essere vivi è comunicare. Il nostro essere mammiferi e bestie è comunicare. La volontà di mangiare, bere e riprodursi. Quindi quando si suona per sé al massimo lo si fa per una parte di sé: quella che vuole essere parte nel mondo, che vuol nutrire un ego non mentale, ma materiale, quell’ego che vuol sentire l’ossigeno che passa nei polmoni, la presenza del corpo e della mente. Non ci prendiamo in giro: ci aduliamo e ci coccoliamo nel suono, tanto quando la gratificazione viene dall’esterno (e anche qui vogliamo che il complimento sia sempre più personale, sempre più specifico, sempre più sincero), tanto quando l’indulgenza (così rara) arriva da noi stessi. È per questo che le critiche che riceviamo vanno a sedimentarsi in uno dei due insiemi: ha ragione l’orecchio altrui oppure la mia infallibile, tanto momentanea, (in)sicurezza? Anche da questo deriva il sentirsi bene dopo una performance: l’aver suonato per gli altri o per sé, ma aver ricevuto gratificazione e conferme sulla propria posizione nel mondo.
Sulla gratificazione esterna influisce spesso e volentieri il materiale: la sua capacità di essere compreso, rassicurante, spensierato o pensieroso, che si rifletta come un concetto che il nostro ascoltatore ha sempre pensato, ma che non ha trovato mai le parole giuste per dire. Questo è il grande ruolo dell’interpretazione, della composizione e dell’improvvisazione: il rendere vivo il materiale. Anche il rapporto carnale, che passa forzatamente attraverso l’esercizio fisico e strumentale, è una parte fondamentale della soddisfazione, dell’agio, o a contrario della frustrazione e del nervosismo. Il materiale può certo confluire con il nostro gusto, ma anche andargli contro, essere un oggetto contundente che dobbiamo domare e cavalcare con rassegnazione o con forza, ma sempre con vivacità. Quando litighiamo con il materiale che approcciamo, il suono e il gesto divergono, la testa e le orecchie sembrano staccarsi le una dall’altra e la musica diventa, per noi, in primis, un noioso gioco di regole e prassi, vediamo l’artificio da dentro, crollano l’illusione e la sorpresa, come nel vedere dentro il cappello del prestigiatore. Questa è una delle sensazioni più fastidiose che conosco, ma come ho detto: dipende solo da noi il rapporto con quello che vogliamo suonare, anche se esso non ci appartiene. Possiamo voler litigare con certo materiale, cercare di essere aggressivi, raggiungere la maggiore distanza possibile: siamo pronti a veder scorrere davanti a noi un carrozzone di inutili note, mentre impotenti marciamo come soldati in una guerra in cui non crediamo. Questo è il maggior prezzo emotivo della coerenza, non il non suonare la musica che non ci piace.
Anche conoscere o non conoscere il materiale è importante: il darlo per scontato produce noia e quindi un possibile distacco, ma anche un grande controllo e capacità di dilatazione, interpretazione, modifica. Il brano diventa liquido e abbiamo la possibilità di vestirlo, ricamarlo e incantare con esso la platea non tanto per le sue qualità, ma per le nostre. Non conoscere il materiale invece è tipicamente una fonte di ansia per il musicista: ma il brivido di suonare qualcosa di vergine, nuovo, come un tappeto di neve appena caduta, ci attrae come il pericolo, come l’orlo di un burrone.
Quindi fondamentalmente coesistono agio e disagio nel vecchio e nel nuovo, trovando radici per inclinarsi verso l’uno o l’altro solo nella personalità dell’esecutore.
E qui l’ultimo pensiero. Quando suoniamo ogni parte del nostro corpo è coinvolta nella produzione del nuovo, continua a sorprendersi e a mantenere la calma, come un equilibrista, come un atleta. È per questo che secondo me l’esecuzione live è tanto seguita: per il pericolo del fallimento. Ma non un mero atto di abilità, piuttosto una sfida verso se stessi e verso il pubblico, verso il normale andamento delle cose, nato dalla decisione di portare un fenomeno fisico lì dove prima regnava il silenzio. Una devianza che ci attrae e attrae chi è vicino a noi. Siamo dei buchi neri, attiviamo neuroni specchio che molti non sapevano di avere e attraverso un senso più animale della vista inneschiamo emozioni irrazionali. Questo meccanismo implica una rettitudine perfetta nel momento dell’esecuzione in termini di presenza mente-corpo, ovvero la quasi completa assenza di retro-pensiero. Schopenhaueramente “l’assenza di dolore” si fa gioia: più siamo lontani da dove siamo davvero e più siamo scissi. Suonare bene, per innescare tutti i meccanismi che ci fanno gioire di cui ho parlato in precedenza, ci costringe ad avvicinarsi sempre più a noi stessi: la meta, da cui parte e arriva il suono.

Come si arriva a o si parte dall’improvvisazione? Perché improvvisazione oggi?
Studio e pratico l’improvvisazione perche ha un’importanza basilare su diversi livelli della vita umana e sulla mia quotidianetà sia fisica che psicologica. A livello del mondo fisico possiamo dire che in genere l’entropia e la dipendenza da altri fattori, sia esterni che interni, sia di fatto la maggior causa degli eventi, nonostante una mania del controllo tipicamente umana. Lo studio della serendipità che comanda l’azione artistica forse e l’unico mezzo di vero controllo del risultato sonoro, l’accettazione dell’irripetibilità dei fenomeni è l’unico atteggiamento sano che porti ad una soddisfazione completa dell’incontrastabile tendenza alla variabilità.
Dopo una lunga riflessione ho considerato non solo utile, ma indispensabile, concentrarmi sullo studio della questione improvvisativa. Non solo spinto da un personale percorso meditativo filosofico, che comunque esiste ed e pregnante nel suonare in genere (la ricerca del qui ed ora, a un certo scontro e incontro di potenze creative), ma anche da una pressione sociale e politica anti-capitalistica che intervenisse contro il principio di efficacia e produttività in vigore in molte attività sonore (e secondo me impossibile da applicare a qualsiasi rappresentazione artistica), che si opponesse al diagramma musica=produzione/prodotto, basato sulla tecnica e sulla riproducibilità dello “stile”, in antitesi alla ricerca della rappresentazione di se stessi, del se come fonte possibile di nuovo, dello scambio comunitario, sul godere delle differenze percettive, sociali e comunitarie del prossimo.
Detto questo il paradosso è che se una certa dose di indeterminatezza è presente in tutta la musica (anche in quella riprodotta, basti pensare alla differenza del luogo e del mezzo con cui si riproduce), l’improvvisazione propriamente detta è presente in tutta la musica fin dall’alba dei tempi ed e la principale attività nella fase iniziale della scoperta dello strumento da parte di ogni musicista. Ignorare questo studio nella propria attività di strumentisti è arrendersi ad un certo tipo di accademizzazione nozionistica ed acritica che ignora il vero senso della ricerca. Questo per quanto riguarda il singolo musicista.
Per quanto riguarda la comunità invece possiamo dire che non esiste miglior metodo per allegorizzare il vivere comunitario delle pratiche improvvisative. In quanto riflessione di ogni singolarità, atteggiamento ed immagine di sè, complesso instricabile di convinzioni politiche, religiose e di appartenenza ad un gruppo, il suono si comporta come un’ombra della sua fonte o, in casi più complessi, come il suo opposto. La tecnica studiata in rappresentazione delle necessita e il mezzo attraverso il quale riusciamo a direzionare queste ombre in modo ordinato ma non costretto. L’incontro di tecniche, atteggiamenti, volontà compositive, energie personali, guidate dalla rappresentazione di sè come suono, riproducono una collettività che, come quella reale, è complessa, sfaccettata e, sopratutto, governata dai rapporti e dall’imprevedibile. In un’epoca in cui la ricerca del nuovo sembra impossibile (intesa come combinazioni diverse del conosciuto) e in cui la verbalizzazione di pratiche millenarie in parvenza di scienza e all’ordine del giorno, forse la vera spinta nella ricerca potrebbe essere pensare l’arte e la società come un’insieme di individui e come un corpo stabile contemporaneamente, che cresce e si auto-rappresenta continuamente, in mutamento costante.
Per questo tornare, attraverso la ricerca musicale sulle “Pratiche” diventa fondamentale: l’improvvisazione, intesa come assenza di stile e stilemi, fondo neutro su cui costruire attraverso gli elementi base del suono (parametri), decostruendo linguaggi per creare non-linguaggi musicali, e una pratica fisica, ovvero va affrontata solo facendola e preferibilmente con gli altri. Con la fondazione 8 anni fa del collettivo di cui sono referente e organizzatore credo di essere entrato in contatto con questo concetto tanto aperto e relativista, quanto concentrato e consapevole di comunità, che lavora lasciando uno spazio aperto, per scomodare una parola complessa, all’Arte. Con il tempo e con molta ricerca credo di aver intercettato un bisogno condiviso ma tacito di una certa modalità di studio e ricerca intorno e attraverso il mondo della musica libera (più diffuso in Italia di quello che si creda), che vedo raramente incanalato nelle istituzioni. L’intento con cui mi avvicino a questa musica è conoscere musicisti che come me hanno regalato attenzione e riflessioni sulla musica a noi contemporanea, vivendola e piegandola al loro modo di usare il suono,
con più o meno esperienza.
Quale è il ruolo dell’ascoltatore durante un’improvvisazione?
Come quando si gettano dei sassi in un lago non si può pensare che le onde provocate da uno non si riflettano sulle onde dell’altro. Quando parlo di comunità intendo una fitta rete di individui legati all’evento suono. Bisogna considerare il sistema suono formato da più punti: i suoi epicentri come fonte, percepiti come unica fonte dall’esterno, ma come singole individualità dall’interno (pensiamo a un’orchestra), che generano quelle vibrazioni psicologiche, emotive, relazionali, sociali di cui ho parlato in precedenza e i ricettori, attivi o passivi, di tale evento sonoro, che stessa importanza hanno nel dato evento, scatenando altrettante reazioni psicologiche, emotive, ecc ecc.
Se potessimo vedere le linee che uniscono i vari protagonisti del momento-suono potemmo tracciarne moltissime, in quanto ogni attore sarà il centro e la periferia dell’atto sonoro: potremmo individuare il legame tra i singoli musicisti, tra un musicista e il resto del gruppo, tra due musicisti in asse tra di loro e il resto del gruppo, tra il gruppo ed il pubblico, tra un singolo spettatore e un musicista, tra un singolo spettatore e l’intero gruppo, e così via. Calcolando che ogni elemento e importante come e quanto gli altri nella riuscita di quel preciso istante, proiettando nel suono la sua energia personale, sia esso spettatore o produttore di suono, capiamo la complessità della domanda. Possiamo dire, soltanto dal punto di vista di un produttore del suono, che la presenza di un pubblico influirà in modo diretto con la qualità della musica prodotta, rendendosi uno dei fattori produttori del suono esso stesso. Allo stesso modo, non potendo essere ignorata , non dobbiamo farne una ragione che influisca completamente sul nostro modo di suonare. Faccio l’esempio di una sala con molto reverbero: certamente cercherò di sfruttarlo al meglio, ma non sarà l’unico elemento che terrò di conto nella composizione, nella struttura, nel contenuto della mia esibizione. Ecco: il pubblico ha il doppio compito di elargire energia creativa e ricettiva, rendendosi parte del processo creativo in modo attivo, anche non dovesse gradire la narrazione. Guai al pubblico passivo! A contrario un pubblico critico giunge con aspettativa caricando i produttori di responsabilità, assorbe e capisce il discorso improvvisativo (e qui la resposabilità del come essere capiti -senza compromessi!- ma questa e una lunga lunga questione) e lo rielabora, donando al musicista nuovo materiale emotivo, che a sua volta trasformerà in suono, in un circolo virtuoso. Se il meccanismo si blocca in punto il disastro e dietro l’angolo: potrebbe succedere che il musicista suoni solo per pubblico, donando solo vibrazioni esauste, che il pubblico conosce già e che non sarà in grado di restituire con freschezza. Viceversa il musicista potrebbe suonare solo per sè, chiudendosi in una torre d’avorio di incomunicabilità: il pubblico non potrà assorbire il messaggio e restituirlo con naturalezza.
Che cosa è importante quando si ascolta la registrazione di una propria improvvisazione?
Il primo atteggiamento nel riascoltarsi e il riascoltare se stessi. Ma personalmente mi trovo soddisfatto nel trovare equilibrio nella forma, a prescindere dalla formazione. Se le proporzioni delle sezioni sono giuste, se gli equilibri tra i suoni e i silenzi sono eque. Come in un brano scritto posso trovare piacere nell’armonia della forma completa, quanto nella minuzia compositiva di una frase: tanto più un’improvvisazione si avvicina a un atteggiamento compositivo, tanto più senso mi sembra che acquisisca. Questo dal punto di vista razionale. Dal punto di vista emotivo credo che l’improvvisazione abbia qualcosa di molto legato alla narrativa: vi sono personaggi, luoghi, azioni, non azioni, dubbi. Quando questi elementi insieme creano qualcosa di buono ho l’impressione di una pagina ben scritta, di un’azione ben costruita. Ecco. L’azione. Pur non vedendo il gesto ascoltando un’improvvisazione che mi attanaglia ne percepisco il vigore, l’attenzione, il suono cesellato da un movimento del corpo fisico di un individuo. Quindi, ricapitolando: forma, composizione, narratività, gesto, naturalezza, compiutezza. Non sono ovviamente le sole cose che tengo d’occhio, ma forse le più evidenti per me. Poi ovviamente c’e la qualità e la quantità di quello che si e suonato, dove lo abbiamo fatto e perchè. Se si e suonato troppo, troppo poco, con un bel suono o con un timbro nuovo che dobbiamo approfondire meglio, se era giusto reagire così e proprio in quel momento. Ma quel tipo di ricerca credo sia potenzialmente infinita.

Dall’introduzione della tesi di biennio specialistico “Ricerca sulla propria coerenza stilistica tra scrittura e improvvisazione”
E’ possibile effettivamente inscatolare ed organizzare delle materie che, al loro termine presuppongono “l’arte”? E non sto parlando solo di tecnica o di know how, ma proprio del convertire la propria urgenza interiore in oggetto fisico (o sonoro), al termine del percorso di studi.
Come, maieuticamente, riuscire a connettere la tecnica di un allievo con la sua anima, gli insegnamenti “giusti” con il dirompente bisogno che spesso porta ad infrangerli? È pensato lo spazio dove esprimersi all’interno delle accademie? Sono questi questi gli eterni dilemmi che mi attanagliano e che penso urlino dentro a tutti quelli che si riconoscono nella figura di studente/artista.
Per quanto mi riguarda sono sempre stato non accademico nel modo di guardare e capire il mondo, ma nonostante ciò la mia formazione è avvenuta completamente all’interno delle accademie. In realtà non voglio essere troppo critico rispetto al mondo che conosco così bene di corsi, professori e brave persone che ho incontrato nei conservatori, dico solo che gran parte della mia formazione ha avuto il bisogno, quasi naturale, di svilupparsi al di fuori da queste mura protette. Quindi adesso le domande, il dubbio su come sarà veramente uscire dal bozzolo.
Strettamente legato al rapporto con la formazione accademica è un altro grande interrogativo che affronto spesso con gli altri, ma sopratutto con me stesso: il rapporto con la Tradizione. Il jazz, come tradizione orale, oscilla tra il fascino dell’espressione di se’, la parabola di un linguaggio condiviso, formato e sviluppato da maestri geniali e un certo autoreferenzialismo, che smette di guardare avanti per invilupparsi, attraverso una totale mimesi e immedesimazione, sintomi di una lingua morta.
Tempo fa mi sono imbattuto in un articolo di Henry Threadgill che mi ha inspirato molto ed esprime in maniera chiara (e talvolta anche dura) quello che da tempo pensavo, credendo di vivere solo l’ennesima fase di rifiuto adolescenziale. In realtà lo spunto è interessante ed è fondamentale perché la critica al modo di studiare la tradizione fonda le sue radici nella tradizione stessa: sono citati i mostri sacri del jazz come rivoluzionari che hanno portato avanti il linguaggio. Il jazz torna ad essere lingua viva, tradizione nel senso di rappresentazione di una comunità esistente.
“ Fin dai primi tempi del jazz, la vera spinta creativa è stata data da quei musicisti che cercavano di essere originali. (…) L’arte si impara in molti luoghi. Parlando della nostra musica, però, trovo che personaggi come Ornette Coleman, Andrew Hill, Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell, Wadada Leo Smith abbiano avuto un grosso impatto nell’ambito della tradizione. E la tradizione implica l’andare avanti, non è basarsi su un repertorio che viene reinterpretato in continuazione. E io faccio parte di quella tradizione che va avanti, che non smette mai di estendersi. (…)
Molti musicisti di oggi hanno un grosso problema. In primo luogo, sono stati influenzati in maniera errata dalle scuole e dalle università che interferiscono con il processo creativo della black music. Ogni musica ha il suo processo creativo: quella cinese, quella balinese, quella indiana. Il punto è che queste scuole hanno pensato di applicare alle altre musiche il processo creativo della musica europea (e non c’è niente di sbagliato, beninteso, nel processo creativo della musica europea, che per la musica europea ha sempre funzionato a meraviglia), ma questo processo non funziona per la musica indiana o per la black music e così via. Il processo creativo sta tutto nel modo in cui si arriva a creare arte, e queste università funzionano proprio come catene di montaggio. Tutti imparano le stesse cose, semplicemente rivisitando la storia della musica. Ma in questo modo non verrà mai fuori niente di nuovo. Ed ecco il problema, con tutti questi musicisti che si assomigliano l’un l’altro, che suonano le stesse cose, che non hanno alcun interesse nel sembrare diversi.(…)
Trenta allievi in un’aula, ai quali viene detto come passare da A a B, e tutti finiscono per passare da A a B nella stessa precisa maniera. Eppure basta ascoltare con attenzione per capire che Dexter Gordon passa da A a B in un certo modo, Eddie Lockjaw Davis in un altro, Coleman Hawkins in un altro ancora, e Sonny Rollins e John Coltrane hanno ciascuno una strategia personale. Questo perché la musica è un fatto individuale, e di conseguenza ogni musicista deve arrivare a queste procedure da solo. Non c’è altro metodo per il jazz o per la improvised black music: soltanto un processo individuale che dev’essere conservato e rispettato.
Non si può far vedere agli allievi come fare qualcosa, qualsiasi cosa. Bisogna piuttosto assisterli nella fase del loro sviluppo musicale, spingerli ad andare avanti, aiutarli a chiarirsi le idee su cosa stanno facendo. Ognuno deve trovare la propria strada: è così che è nata la tradizione del jazz. (…) Badate bene, non sto dicendo che non si debba studiare la musica, tutta la musica, quella fatta dalla generazione precedente, da quella ancora precedente e così via. Va studiata il più possibile. Ma, per l’appunto, va studiata. Serve a tirarci fuori qualcosa, non a essere riprodotta pari pari. Perché ogni musica, ogni forma d’arte è legata al suo tempo, alle situazioni sociali, spirituali, scientifiche di un dato periodo. Per questo l’arte sa parlare così bene di un determinato periodo storico.
Ma adesso? Siamo pieni di musicisti tecnicamente impeccabili – perché la tecnica è un aspetto che oggi viene insegnato benissimo – che cercano di diventare famosi suonando musica che è più vecchia di me! Ma dove sta la logica in tutto questo? Perché dovrei ascoltare qualche ragazzino che fa della musica che io ho già sentito suonare di persona da chi l’ha creata? Perché devo sprecare tempo ascoltando questa roba, la stessa roba che a suo tempo ho ascoltato dal vivo da Dexter Gordon o da Coltrane o da Oscar Peterson? Chi tenta di riprodurre oggi quella musica, tra l’altro, non ha neanche la minima idea di cosa passasse per la testa di quei musicisti, ignora che quella musica rappresentava la loro vita e quei tempi. Tutta l’arte è così.”
In quest’ottica di tradizione che guarda avanti, quindi, dove inserirsi? Da dove partire, quali sono i modelli da sviluppare? Come rappresentare se stessi, attraverso quali mezzi? Come piegare il linguaggio alla propria sensibilità? E sopratutto quale linguaggio?
Un altro argomento che è affrontato con voluta ed attenta analisi in questa tesi riguarda il rapporto di specificità e reciprocità tra scrittura ed improvvisazione, come risultati di uno stesso bisogno di espressione, dai meccanismi sorprendentemente simili.
Esiste musica totalmente scritta di fattura assolutamente invidiabile e musica totalmente improvvisata altrettanto sorprendente per qualità e rigore formale (in entrambi i casi si possono avere delle perplessità sul “totalmente” ma per adesso prendiamolo come assunto): ma cosa si chiede oggi un compositore/improvvisatore che deve scrivere per improvvisare? In un’ottica contemporanea della pratica improvvisativa può essere utile attingere a composizioni preordinate per direzionare, se pur nella massima libertà espressiva, il materiale a nostra disposizione. Come conciliare una musica che ha fatto della massima libertà un punto di forza con la scrittura? Come indirizzare, ampliare, sviluppare il linguaggio tramite la preordinazione senza che essa sia una gabbia? Forse tutto può diventare partitura e ogni partitura può essere scardinata, reinterpretata, scavata nei suoi parametri fondamentali.
Rifacendosi proprio a quella tradizione che ho citato: ogni grande improvvisatore e compositore che ha dato un suo contributo alla storia della musica scriveva come improvvisava ed improvvisava come scriveva. Una prima ipotesi pone domande simili alla famosa storia dell’uovo e della gallina: da cosa nasce cosa? Ma forse una risposta più oculata potrebbe essere che da una sola testa nascono in modo naturale, quasi incosciente, l’una e l’altra cosa in modo contemporaneo, i suoni si susseguono con la stessa logica: solo in tempi più brevi (l’improvvisazione) o più dilatati (la scrittura). È ad esempio il caso di Parker, Monk, Dolphy, Mingus, solo per citare dei giganti riconosciuti come i padri del jazz.
Ma allora ogni grande scrittore è anche un grande improvvisatore? No. Il perché è difficile dirlo: cultura di riferimento, tradizioni, mezzi, tecnica, carattere. Ma sembra che chi abbia sviluppato parallelamente questi due linguaggi riesca a padroneggiarli in modo del tutto intercambiabile, come chi nasce bilingue. Anzi dirò di più: è come se questi due linguaggi fossero in realtà uno solo che si implementa e rafforza usando sia l’uno che l’altro mezzo, fino talvolta a fondersi, rendendo quasi irriconoscibile da un esterno il materiale scritto da quello improvvisato.

Ci ho riflettuto in questi giorni. Nel mio percorso, se pur breve (mi considero ancora abbastanza giovane!), ci sono stati molti momenti che ricordo con affetto e faccio fatica a identificarne pochi in particolare, ma ci provo. Sicuramente uno è dei primi anni di Siena Jazz: con i miei 13 anni ero il più giovane allievo (o uno dei più giovani), la scuola era già di ottimo livello, ma si fumava ancora dentro e tutti conoscevano tutti bene fuori e dentro la scuola. Il mondo del jazz per me aveva ancora quell’aura magica che solo una cosa sconosciuta può avere. Mi ricordo le facce di Coltrane, Roach, Dolphy, Bilie Holiday nelle foto alle pareti. Lì dentro ho conosciuto persone speciali per la mia vita artistica: mi ricordo i primi approcci alla musica libera con Silvia Bolognesi e Alessio Riccio, risate con molti compagni di corso (alcuni quasi coetanei, mentre alcuni con il doppio…o anche il triplo della mia età!), le trasferte in gruppo per andare a suonare in vari festival, che che durante la prima adolescenza erano per me esperienze pazzesche, jam infuocate in un buco (nel vero senso della parola) nel tufo sottoterra in centro a Siena, gestite in modo punk e senza nessun tipo di licenza, ma dove suonavano tutti con tanta passione. Ancora non pensavo che sarebbe stata la mia vita. Un altro bel ricordo rispetto al jazz è di un compleanno. Sono nato in una frazione microscopica con una decina di abitanti e sono cresciuto insieme alla figlia dei miei vicini. Eravamo inseparabili…e pensare che adesso sono anni che non ci vediamo e che non ci sentiamo. Vabbè. In casa mia si è sempre ascoltato musica, ma devo dire mai del jazz, se non per caso, mentre suo padre era un appassionato, un comunista alla vecchia maniera con tutti i dischi usciti con il manifesto (mi sembra) in ordine su una mensola, insieme a molti altri classici del jazz. Almeno una trentina di titoli pazzeschi che al tempo non mi dicevano niente. Lei mi chiese, non mi ricordo per quale compleanno (forse 15,16 anni?) che regalo volessi e io le risposi di copiarmi TUTTI i cd di suo papà. Il 14 agosto, per il mio compleanno, lei arrivò con due pacchi di cd masterizzati. Lì dentro c’erano Mingus, Ornette, Coltrane, Shepp, Dolphy, Brown…. Uno scrigno del tesoro a cui devo tutt’ora il mio amore per questa musica e che ho macinato per anni e anni. Facciamo un salto in avanti. Avevo fondato BlueRing-Improvisers da poco ( dopo aver frequentato ImproZero a Firenze…anche qui vorrei aprire una parentesi sull’importanza di alcuni incontri che ho fatto là, ma non si può scrivere tutto) ed eravamo arrivati al decimo incontro, credo fosse il 2013 o 14. Per l’occasione avevamo fatto le cose in grande. Ancora non ci eravamo spostati in spazi istituzionalizzati, ci riunivamo ancora in uno spazio che di giorno era un co-working in periferia, con la tangenziale che passava a due metri dalle finestre. La sera spostavamo le scrivanie, portavamo tutti gli strumenti (al secondo piano!) e si trasformava in una sala da concerti, animati da una creatività e da voglia di suonare pazzesca. Insomma, dicevo, questa decima edizione. Avevamo invitato, oltre ai musicisti che venivano di solito alcuni musicisti e performer più grandi (Silvia, Griffin, il caro Stefano Bartolini, che adesso se ne è andato e che mi ha dato tanto), una ballerina professionista, mentre Marta Viviani faceva i primi esperimenti di grafica e video-mapping live su questa grande parete. L’affluenza la sera fu altissima: ci raggiunsero forse un centinaio di persone, decine di musicisti, attori, ballerini, performer e artisti… non mi ricordo quanti set di impro abbiamo fatto. Insomma, c’e stato un momento, avvolto nella luce, nel movimento e nel suono, in cui mi sono girato e ho visto una comunità di musicisti con estrazione diversa, artisti di tutti i tipi, volersi bene. Lì ho capito che la cosa che avevo creato mi stava sfuggendo di mano e che sarebbe diventata un parte importante della mia vita. L’ultimo blocco è più recente, sarà di 5 anni fa. Mi sono trasferito a Bologna quasi per caso a dire il vero, perchè molti musicisti andavano lì e perchè non troppo lontana dalla toscana, il conservatorio jazz esiste da tempo e c’è una bella scena. Non ci ero mai stato prima di fare l’esame di ammissione al biennio. Insomma, mi trasferisco con la mia compagna in questa casetta del centro, convinto che ci avrei messo mesi, se non anni, ad entrare un po’ nel giro e a suonare con i musicisti che mi interessavano, sopratutto mangiato da una sorta di insicurezza, tipica di chi viene da una città di provincia: “sarò in grado? me se magneranno? magari fo schifo”. E invece no. Nel senso, che per tutta una serie di motivi la città musicale mi ha accolto, facendomi sentire non solo accettato e benvoluto, ma anche in grado di esprimere qualcosa di mio, cosa che mi era stata un po’ stretta dentro le accademie. Un po’ di tempo fa parlavo, dopo aver suonato in jam con il sassofonista JBL, che per caso passava da bologna, e che mi ha detto: “sai qual’è la cosa bella qua? è che ognuno può suonare come gli pare”.

Anche in questo caso ricorrerò ad un dualismo: quello tra ritmo inteso comunemente come pulsazione, distanza tra due avvenimenti, e quello inteso invece come respiro, come pulsare definito nello spazio-tempo di eventi singoli e definiti al loro interno dall’universo-gruppo. Per quanto riguarda la prima concezione ci sono tre modi di scrivere e di improvvisare che ugualmente mi affascinano:
-il primo sono gli avvenimenti su pulsazione, che possano partire da qualunque beat o qualunque pausa. Si tratta di avvenimenti che presuppongono un’attesa, una chiamata al gruppo, talvolta implicita, un picco di tensione compositiva o improvvisativa..,,, Gli avvenimenti non sono calcolati metricamente e si adagiano sul tempo anzi, spesso vengono usati con duplice accezione di “nel beat” o “liberi dal beat”. Se talvolta può sembrare che questi gesti musicali abbiano più significato melodico o timbrico, hanno in realtà un valore ritmico molto importante che enfatizza la pulsazione come la vera protagonista della composizione, o del gesto improvvisativo.
Nel silenzio assoluto un suono interrompe un silenzio. Ma se c’è un ronzio, un rumore di fondo, un brusio, ben presto, grazie alla nostra particolare selezione percettiva, esso diventerà il nostro nuovo silenzio, ed un suono si inserirà in esso. Grazie alla reazione tra la pulsazione, i diversi avvenimenti ritmici, le differenti reti metriche che si riescono a creare, possiamo parlare di texture: un intreccio fortemente ritmico che si adagia su un ripetersi ad libitum, che lascia intravedere la pulsazione, che è il nostro nuovo silenzio.
– Il secondo riguarda il metro, che spesso utilizzo per creare una sensazione di complessità. Non sono in realtà particolarmente interessato a giochi matematici di polimetrie o poliritmie, di cui la musica odierna è già fitta, come ho detto esponendo la mia opinione nei paragrafi precedenti. Sono piuttosto interessato a creare un “effetto” di complessità latente, un intrigo di pulsazioni, un gioco di specchi che rifletta la difficoltà intrinseca nella natura. Talvolta, sia a livello di scrittura che di esecuzione, voglio rendere la musica una giungla di cui l’ascoltatore poco sa, in cui si perde, come si perderebbe nel cercare linee conosciute nei riflessi di uno stagno o nell’intrecciarsi dei fili d’erba in un prato. I mezzi comunemente conosciuti e usati come il metro, i movimenti del ritmo armonico, il moto delle voci, sono per me la materia per creare una sovrapposizione naturale che rappresenta l’atomo e l’universo.
– Il terzo riguarda una sorta di falsa pulsazione ed è quello che più mi affascina in assoluto. Parliamo di una sequenza di avvenimenti che, come ogni altro, si muovono nello spazio, ma sono, per la nostra percezione, impossibili da determinare all’interno o all’esterno di una pulsazione. Non saprei spiegare meglio questa affermazione se non con l’uso di una metafora. La pareidolia o illusione pareidolitica è la tendenza istintiva e automatica a trovare strutture ordinate e forme familiari in immagini disordinate; dal greco εἴδωλον èidōlon, “immagine”, col prefisso παρά parà, “vicino” è l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale. È più o meno quello che succede nell’identificare una pulsazione là dove altri identificano assoluta assenza di beat: questa pulsazione però è a volte condivisa e notata da tutti, come una specie di immagine del subconscio collettivo, anche se a livello formale realmente non esiste.
La seconda definizione di spazio ritmico è già stata ampiamente trattata nella mia tesi specialistica. Quello che vorrei precisare è che non si tratta di un meccanismo valido solo per gli ambiti ritmici non scanditi da un pendolo ritmico, ma semplicemente dove esso è particolarmente evidente. Ad esempio, con uno dei miei ultimi progetti un brano prevede l’esecuzione di una scrittura ritmica tradizionale: 4 battute in tre quarti, tre sempre in tre che reiterano la stessa figurazione ritmica ed un’ultima in cinque quarti. L’indicazione orale, qui fondamentale è stata di cantare insieme, della sensazione di tensione e scivolamento che quell’ultima battuta in cinque doveva creare, la tensione. Ho cercato il flam dell’esecuzione, l’effetto mosso della fotografia, un respiro comune, molto più importante della partitura scritta. Questo per dimostrare che anche all’interno di un linguaggio tradizionale la concezione ritmica che mi pervade è quella.
Per quanto riguarda invece l’assenza completa di pulsazione regolare, argomento ampiamente trattato, se non esaurito nei paragrafi precedenti, posso aggiungere qualcosa a proposito del respiro. Con respiro intendo esattamente quello che è: flusso vitale che mantiene viva un’attività, che sia il battere del nostro cuore o il soffiare nel sax, il pompare ossigeno al cervello o percuotere una pelle. Questo avviene simultaneamente nella testa e nel corpo di ogni musicista coinvolto nell’esecuzione di qualsiasi tipo di musica. Spesso ho parlato di questo respiro evidenziandolo come il pulsare comune di un gruppo, ma vorrei sottolineare come nella mia accezione vi sia una grande concentrazione su noi stessi, sul nostro respiro, sulla nostra coscienza, che dalla nostra autoanalisi ritmica, del nostro fluire di energie, porta quasi ad una spiritualità, una ri-attribuzione di dignità. So che respiro più veloce di altri, che soffro di ansie ed insicurezze, ed è per questo che devo ispirarmi al silenzio, che devo ascoltare quello che succede all’esterno e poi quello che succede al mio interno prima di agire. Mi piace stare al centro del discorso ma non posso imporre il mio ritmo: è per questo che mi armo di una potente disciplina interna. Insomma: la conoscenza del proprio respiro insegna molto di se’ stessi, unire il respiro a quello di altri crea non solo un momento musicale ma un momento energetico ed umano importante. Suonare e vivere diventano la stessa cosa, “la parallela tensione verso un magma sonoro che è al tempo stesso trasformazione di un’energia fisica, corporea (e, più o meno alla lontana, di danza) in una trascendenza orgiastica, desiderio di sondare i confini tra suono e rumore, dominio della dialettica tra libertà e disciplina, ansia di superamento dei tradizionali strumenti espressivi, tentativo di far coincidere il tempo del vissuto corporeo con il tempo simbolico dell’espressione musicale.

Intervista per Ad Hoc Orchestra (BR), tradotta dall’Inglese
- Parlaci della tua esperienza con l’improvvisazione e l’improvvisazione condotta, chi sei e cosa fai:
Buonasera a tutti, mi chiamo Tobia Bondesan, sono un sassofonista, improvvisatore e compositore italiano. Giusto un paio di parole su di me: ho frequentato un’importante scuola di jazz in Italia fin da quando ero piccolo. Quando sono diventato adolescente il mondo del jazz mi era diventato un po’ stretto e non più totalmente confortevole: c’erano degli incontri di improvvisazione a firenze e in altre città e ho iniziato a frequentare quell’ambiente. In quegli anni ho conosciuto alcuni musicisti come Silvia bolognesi, che avete avuto anche voi qua come ospite, il batterista Alessio Riccio, il sassofonista Stefano Bartolini, che mi hanno aperto ancora di più la visuale sul mondo sulla musica libera. Ma credo che un certo livello di libertà all’interno dei linguaggi sia da sempre dentro di me: con molta inconsapevolezza i miei primi dischi preferiti furono di Ornette Coleman, Don cherry, Eric Dolphy, l’ultimo Coltrane…tutti artisti che coltivarono la loro libertà! D’altronde io ho iniziato a suonare il sassofono a circa 12 anni e spesso mentre improvviso mi sembra di rivivere l’esperienza che si fa in quel momento: l’esperienza è quella della scoperta, della sorpresa, del gioco. Con Silvia ho scoperto la conduction di butch morris, mentre ho sperimentato in quegli anni anche altri metodi (tipo il metodo cobra di zorn). Ho partecipato a molte conductions come strumentista, ma sempre con attenzione a quello che succedeva a livello compositivo. Uno dei miei primi gruppi in quel senso fu un ottetto che si chiamava Uroboro, con molti fiati. Io suonavo e facevo condution, molte volte contemporaneamente…! E’ stata credo la mia prima esperienza: avevo 18 anni credo, anche se alcuni di quelli che suonavano con me erano più grandi. La cosa è andata avanti per un paio di anni, però ho capito molte cose della conduzione grazie a loro. A 21, 22 anni ho fondato un collettivo, che si chiama BlueRing Improvisers, che all’inizio era partito come degli incontri di impro. Partecipavano moltissimi musicisti, ma anche performer, attori, ballerini, artisti visuali. In quel contesto creativo crebbe anche la prima BlueRing orchestra, che aveva forma laboratoriale, spontanea. Riunivo i musicisti volta per volta, lavoravo con loro sulla conduction e facevamo un concerto al mese, sempre con formazioni diverse. Poi la cosa si è un po’ stabilizzata e abbiamo registrato un disco, BlueRing vol.1, pubblicato qualche anno fa. Intanto in questi anni sto continuando a formare musicisti sulla conduction, lavoro con le orchestre di BlueRing, lavoro con Silvia (Bolognesi, ndr) nella fonterossa orchestra (per lo più come strumentista). Questa è la storia, più o meno.
2. Secondo la tua esperienza quale è il ruolo del direttore?
Per me dipende sempre molto dal gruppo. Come in ogni improvvisazione la responsabilità è condivisa. Ci sono gruppi che suonano molto bene da soli, allora lì lavoro quasi solo della forma, mentre ci sono altri -anche di ottimi strumentisti, il livello strumentale è secondario!- che hanno bisogno di molte informazioni e allora mi devo concentrare molto sul contenuto. In ogni caso è come essere alla guida di una grande macchina, fatta di colori, temperamenti e storie diverse. Il direttore deve decidere la posizione, la rotta da tenere …ed evitare naufragi! Scherzi a parte credo che sia il musicista che il direttore devono cercare di avvallare l’idea l’uno dell’altro, senza cercare di piegare la volontà dell’altro. Non è una guerra, è una collaborazione. Quando dirigo spesso rido, scherzo, faccio vedere che ciò che stiamo facendo è importante ma che non sono il re, né l’unico responsabile. Ci sono due aspetti sicuramente che mi affascinano della posizione di direttore: uno è quello timbrico, che associo direttamente al colore. La possibilità di scegliere porzioni di orchestra e musicisti grazie al loro suono. Mischiando insieme in modo quasi infinito le possibilità timbriche. Questa è la materia dell’orchetra. L’ altro è la responsabilità della forma, quindi la potenza narrativa che può avere un’orchestra. Creare immagini, personaggi, paesaggi, farli interagire, raccontare storie. E avere in questo una potenza formale.
3. Qualche informazione tecnica: segni, gesti, cartelli e altro…
Dunque, la mia tecnica direttiva è un mix di segni della conduction di Butch Morris, segnali da altri metodi direttivi, gesti inventati da me per motivi specifici, cartelli e notazioni grafiche. In tutto questo apparato comunque credo che la mimica del volto e del corpo sia importante. Credo che la conduzione per un direttore sia uno dei metodi per connettere il corpo alla musica, come la danza. Il corpo principale del mio metodo direttivo fa riferimento alla conduction di (Butch, ndr) Morris. In questa sono inseriti gesti presi da altri conduttori con cui ho lavorato. Altri gesti, come dicevo, sono inventati da me per gruppi specifici, oppure per la didattica. Come segnali visivi oltre alle mani (e alla faccia) utilizzo cartelli (adesso meno di prima) e schede, con segnali che indicano un gesto per lo strumentista, mutuati spesso dalla notazione contemporanea. Li chiamo “i cerchi”, perchè sono contenuti all’interno di cerchi numerati. Ad esempio, traccio un cerchio in aria con la bacchetta e indico il numero: 3 che vuol dire, per esempio, pointillisme. Oppure, figurazione ritmica, oppure timbro. All’interno dei “cerchi” si aprono altri ventagli di segnali, come la densità, o le evocazioni timbriche. Questo è tutto mixato a partiture scritte spesso. Provo a far interagire tutte queste cose.
4 Vedi la Conduction come una pratica sociale?
La conduction a livello di concetto è facile e si può basare sulle capacità di ogni strumentista. In questo senso è una pratica sociale. Poi bisogna dire che alla conduction si interessano persone che hanno una predesposizione alle pratiche sociali. Mi spiego meglio. Ci sono musicisti troppo anarcici, il cui carattere o la propria individualità è troppo grande per lavorare in grande gruppo. Al massimo possono essere dei solisti accompagnati da un gruppo. Anche loro possono essere condotti ovviamente, ma soffrono. Mi è capitato. Mentre chi si orienta stabilmente sulla conduction trova il suo spazio nella socialità, nel far parte di un collettivo, cosa che succede spesso anche nell’improvvisazione. Quando conduco comunque io voglio che il gruppo si comporti come una società ideale, dove tutti sono allo stesso livello (anche se non tutti sono bravi), voglio che tutti abbiano uno spazio creativo o solistico, voglio che nessuno sia aggressivo con gli altri. Ci tengo molto che ci sia un’atmosfera familiare. Se con pratica sociale intendi che ha influenza sulla società al di fuori della musica credo che ogni nostra azione ne abbia. Ho introdotto alla conduction decine di musicisti e alcuni di loro oggi sono improvvisatori. Ho cambiato il loro modo di vedere la musica, come musicsiti prima di me lo hanno fatto con me. Per molti è il ponte verso una libertà estrema nella musica, capiscono che si può fare tutto. Capiscono che si può essere creativi. Capiscono che si può essere liberi con gli altri. E questa è una lezione che tutti possono imparare.
5. Puoi condividere qualcosa con noi a proposito del tuo approccio creativo sul palco? Come funziona il tuo cervello quando improvvisi?
Ragiono diversamente quando sono strumentista e quando sono direttore. Quando il suono proviene da me è diverso. Quando suono, il suono sta esattamente al centro di un incrocio dove ci sono il pensiero, l’istinto, il gesto, l’ascolto e la composizione. Tutto accade in meno di un secondo. Ci sono le linee degli altri musicisti, la mia, che deve essere coerente con se stessa. L’uso del silenzio. E’ tutto molto complicato e facile allo stesso tempo, come nella vita reale. Non c’è un solo processo creativo in atto, ce ne sono molti. Una cosa importante è conoscere cosa possiamo fare, conoscere bene le proprie armi, e averne il più possibile. Voglio dire, allargare il più possibile il prorio vocabolario tibrico, armonico, ritmico, melodico. In questo modo si creano dei pattern, ma ogni volta possiamo crecare di forzarli, di romperli, per andare oltre. L’altra cosa è riconoscere dove sono gli altri, quanto spazio occupano nella musica, che tipo di spazio. Una cosa importante è che tutto deve essere volontario, anche il fatto di non esserlo. Il gesto è importante, bisogna ricordarsi che suonare uno strumento è un fatto fisico, suoniamo con le mani, il suono attraversa le stanze, le persone. Posso decidere di affidarmi a un gesto, ma ho deciso di farlo. È una sorta di spazio a metà tra il conscio e l’inconscio. Quando dirigo parte di questa spontaneità scompare. Può essere perché il gesto è condiviso, ma il suono non proviene da me. E devo pensare anche dove stiamo andando, quindi c’è un pensiero in corso che non può assentarsi totalmente, perché sono il responsabile della forma in quel momento. Io penso alla conduzione orchestrale più come alla costruzione di paesaggi: succedono cose fino alla realizzazione di una situazione che ho in mente. Stiamo qua un po’, magari cambiando luce, cambiando personaggi, e poi andiamo via, con delle lunghe transizioni tra una situazione e l’altra, come una specie di suite. Penso a quanti musicisti hanno suonato in quel momento, ai differenti gruppi che posso usare all’interno dell’orchestra, penso alle dinamiche, al ritmo. I parametri dell’improvvisazione sono sempre gli stessi, ma adesso le teste a pensare sono molte, quindi è più difficile a volte.
6. Cosa pensi possa andare storto sul palco?
La cosa che mi fa più arrabbiare è prendere questo lavoro senza serietà. Quasi comico. Dico da parte dei musicisti. Chi suona pensando che sia un gioco, pensando di essere superiore a questo tipo di musica. Credo che la differenza sia lì. Ho diretto orchestre di musicisti non professionisti, ho diretto orchestre con musicisti molto giovani. Quando tutti sono concentrati sulla musica il risultato è molto buono. Quando c’è qualcuno che non crede che possiamo fare qualcosa di bello, allora il risultato è scarso. La ragione è l’energia che dai alla musica. Ugualmente il pubblico sbagliato è un grande ostacolo. È difficile lavorare con un pubblico ostile. Può essere che il pubblico medio pensi che l’improvvisazione sia una musica per pochi, intellettuali. Una cosa importante è non far sentire il pubblico stupido, cercare di connetterlo con la musica, non con le parole, ma con l’energia e la concentrazione, coinvolgerlo anche in un percorso di musica sperimentale. Le cose che possono andare storte sono veramente molte, ma penso che possiamo partire proprio dagli errori a volte per creare qualcosa di nuovo. Possono essere un’idea che ti porta da un’altra parte, quindi bisogna talvolta essere grati agli errori dei musicisti e nostri. Un esempio che succede spesso: per esempio i finali con stop. Dico sempre “guardatemi, è la cosa più importante, ma spesso c’è qualcuno che si distrae, guarda da un’altra parte, e non si ferma. Da lì ovviamente parte un’improvvisazione, o un solo, che racconta una nuova storia. Non è che possiamo fermarci e dire scusate è un errore! Anche questa è l’improvvisazione, la possibilità di usare al meglio gli errori!
7. Quale è il tuo segreto per avere una performance di qualità e interessante?
La preparazione mentale per me gioca un ruolo importante. La preparazione non significa che decido prima cosa deve succedere, ma che mi preparo a che tutto possa succedere. Sono tranquillo e non spaventato, ma reattivo. Questo è importante perché ci sono un sacco di paure dentro la nostra testa quando stiamo improvvisando. Cose come: questo lo fai ogni volta, oppure è già stato fatto, è noioso, è troppo forte, è troppo lungo. Il segreto, penso, è solo suonare, pensando tutte queste cose mentre si studia o si ragiona sull’improvvisazione. L’improvvisazione è un approccio umano: l’umanità è sopravvissuta a moltissimi disastri, con le sue conoscenze e le sue armi nel senso di tecniche di sopravvivenza. Improvvisare è scoprire quanto siamo bravi a sopravvivere a ogni situazione e scoprirlo ogni volta ci fa diventare più forti per la prossima. Essere pronti perché tutto possa succedere ed essere felici e grati per questo. Per essere in questa situazione mentale uso diversi metodi: può essere che mi pensi come iniziare, per creare come prima cosa una zona confortevole, oppure no, decido che sarà una sorpresa, quindi lascio che qualcuno inizi a improvvisare e da lì costruirò. Comunque sempre mi prendo qualche secondo per concentrarmi per quello che sto per fare, è come se tutte le cose che conosco mi passassero in testa, poi prendo un respiro e non ci penso più. Un’altra strategia, una cosa veramente importante è creare un buon feeling con i musicisti e con il pubblico, essere allegri, con energia alta e sembrare sicuri di se. Può sembrare banale. Questo perché darò la stessa energia a tutti, ed è quello che ci serve per i processi creativi. Per trucchi tecnici non saprei dire di più, perché ogni volta è diverso. Con le orchestre cerco di parlare meglio che posso di ogni gesto durante le prove, cercando di spiegare bene il senso profondo di ogni gesto, cercando di spiegare su cosa ho in mente quando penso a quel gesto in modo compositivo. Tutto è basato sulla fiducia che abbiamo con gli altri. Ovviamente suonare o dirigere persone che conosco bene è sempre più facile: loro sanno cosa uso e come, io so dove loro vogliono andare e quali sono le loro skills.
8. Credi nella registrazione buona la prima oppure credi sia giusto utilizzare editing, sovra-incisioni e cose simili?
Non credo che nessuna delle due cose sia sbagliata. Sono solo approcci diversi. Come composizione e improvvisazione. Sono la stessa cosa, ma avvengono in tempi differenti. Anche qua l’intervento di editing e overdubs è qualcosa che assomiglia alla composizione. Personalmente trovo che nel 21st century possiamo fare un po’ di tutto. Penso che forse non ha senso lavorare in post-produzione su un fatto spontaneo come l’improvvisazione, perché potrebbe suonare non naturale. Ma dipende da quello che vuoi ottenere alla fine. Per me l’imperfezione, il piccolo errore mi rende curioso, rende una registrazione viva. Ma ci sono casi dove overdubs sono usati in modo creativo, come se fossero materiale compositivo. Allora li trovo come se un musicista suonasse uno strumento, come se un compositore scrivesse musica. Come tante cose l’importanza è nel perché stai facendo questa cosa. Secondo me ci sono oggi molte decisioni prese perché tutti fanno questo. Ad esempio, mettiamo che un artista che ci piace ha deciso di lavorare solo sui tempi complessi: wow, figo, tutti gli artisti che lo seguono lavorano sul ritmo, e magari dimenticano la loro strada. E con la registrazione uguale. La radio, i cd, spesso hanno lo stesso tipo di suono un po’ “patinato”. Il suono prima bisogna averlo in testa. Per questo ogni musicista oggi dovrebbe avere piccole nozioni di registrazione e di come modificare il suono. Non siamo più nell’epoca dove tutto è acustico e si registra con un microfono. Quando conosci puoi decidere. Con internet è facile conoscere queste cose.
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Conduction: ovvero la pratica che utilizza un vocabolario di segni e gesti ideografici (istruzioni) per modificare o costruire in tempo reale arrangiamenti o composizioni musicali. Le istruzioni attivate danno la possibilità di alterare o dettare istantaneamente armonia, melodia, ritmo, articolazione o fraseggio, grazie alla manipolazione di altezza, intensità, timbro, tessitura, durata ed ordine. In tal modo il vocabolario della “Conduction” risulta funzionale all’interno di qualsiasi forma, stile e tradizione musicale, e può essere impiegato come un ampliamento della direzione d’orchestra tradizionale.”
La conduction è quindi la pratica di trasmettere e interpretare un lessico di direttive per costruire o modificare un arrangiamento sonoro o una composizione; una pratica che permette lo scambio di contenuti tra il compositore/direttore d’orchestra e strumentisti e che offre la possibilità immediata di avviare o alterare armonia, melodia, ritmo, tempo, progressioni, articolazione, fraseggio. Offre inoltre la possibilità di organizzare in tempo reale la forma attraverso manipolazione di dinamica (volume/intensità/densità), timbro, durata, silenzio.
Come ho scritto il vasto lessico della conduction permette e comprende l’armonia come elemento indefinito da trattare con scopo sinestetico e timbrico. L’armonia diventa colore, il colore non crea struttura, ma anzi, non struttura. La sovrapposizione è il fondamento della conduction, che rende l’armonia un colore da mischiare all’altro elemento armonico che è il contrappunto. Inoltre il contenuto è definito dai musicisti, il gesto dal direttore: sarà come suonare un pianoforte ai cui tasti non sono state assegnate note. L’armonia sarà aleatoria e ogni musicista contribuirà, annullando se stesso, all’alea. Non solo, ma anche l’azione di ogni musicista non sarà proveniente da una sola testa: il suo gesto sarà inibito e controllato dal direttore. In questo cortocircuito di libertà obbligate, o obblighi liberi, il parametro armonico si sblocca, divenendo di fatto un elemento mobile, un pezzo del puzzle.
Vari modelli di conduction sono stati elaborati, spesso gruppo per gruppo; esistono oggi moltissime varianti a quella originale di Butch Morris, inventore, ricercatore e promotore della conduction. Tra di esse molto conosciuta per la sua spettacolarità è quella quella di John Zorn (metodo Cobra) dei game pieces, dove si aiuta con gesti diversi e l’aiuto di cartelli.
Possiamo dire che in tutte queste varianti della pratica della conduction il secondo elemento di cortocircuito sia quello tra improvvisazione e scrittura nella testa del direttore. Nessuno saprà mai se esistono degli schemi che si ripetono o delle idee precostituite, ma posso dire con sicurezza che l’alto livello di imprevedibilità di risposta da parte dei musicisti lega questo mondo al concetto di improvvisazione.